Il valore aggiunto del Retail
È di qualche giorno fa l’ennesima notizia relativa alla chiusura di 450 filiali bancarie di Unicredit, con conseguente esubero di 6.000 persone.
Non sono solo le filali bancarie a scomparire, a intervalli regolari leggiamo infatti che il negozio X o la catena Y hanno deciso di chiudere definitivamente i battenti.
La colpa viene (quasi) sempre data al web: il servizio di home banking delle banche tradizionali, così come le banche online, ci consentono di effettuare la gran parte delle operazioni (se non tutte) senza doverci recare in filiale, mentre siti quali Zalando o Yoox, per citare i più popolari, ci portano vestiti e accessori direttamente a casa nostra.
Per non parlare di Amazon, spesso additato come l’origine di tutti i mali.
In realtà ciò che Amazon ha fatto è stato semplicemente spostare l’asticella verso l’alto, stabilire nuovi standard e diventare un benchmark sotto molti punti di vista.
Lamentarsi però non è la soluzione. Quello che i direttori di banca o gli store manager (ma anche chi sta sopra di loro) dovrebbero sforzarsi di capire è come porre rimedio a questa emorragia: è un dato di fatto che il pubblico (cioè ciascuno di noi…) è sempre più viziato, esigente e allo stesso tempo infedele: vuole tutto subito, e se le sue aspettative non vengono soddisfatte, è pronto a rivolgersi altrove.
La soluzione sta nel comprendere come poter diventare insostituibili, nonostante Amazon; è fondamentale cioè identificare qual è il valore aggiunto che si vuole offrire.
Bisogna dare ai clienti un valido motivo per entrare in negozio la prima volta e poi tornarci; occorre comprendere qual è la ragione che può spingere una persona a investire parte del suo tempo (risorsa scarsa e sempre più preziosa, non dimentichiamolo) per andare in punto vendita: libreria, filiale bancaria, o altro che sia.
Il valore aggiunto è qualcosa di assolutamente rilevante per il pubblico che si desidera intercettare. Non mi riferisco, quindi, al bar all’interno di una banca in una città come Milano, che pullula di posti dove fare colazione o bere il caffè, così come non sto parlando di libri scontati in una libreria, quando online si riescono spesso a strappare prezzi più competitivi.
Il valore aggiunto è qualcosa di fondamentale per il pubblico, non per l’azienda, e per identificarlo occorre andare in profondità nell’analisi e nella comprensione dei clienti che si vogliono intercettare, dei loro bisogni e delle loro aspettative. In altri termini, occorre individuare il famoso insight.
In molti casi questo valore aggiunto è legato all’esperienza che si vive in negozio; esperienza che viene fornita non solo dall’intrattenimento che si trova all’interno del punto vendita (stanza del freddo, area bar, etc), ma soprattutto dal cosiddetto “fattore H”: il fattore umano, in altre parole, è fondamentale nel riuscire a trasmettere il valore aggiunto di un’azienda, di brand, di un singolo punto vendita (quando addirittura non sono proprio i dipendenti ad essere il valore aggiunto del punto vendita, come scrivevo in un vecchio post).
Come vi sentite ogni volta che entrate in una filiale bancaria (se ancora ci entrate): sicuri di vivere un’esperienza piacevole, se non addirittura memorabile, oppure per voi è una necessità della quale fareste volentieri a meno? E quando entrate in un negozio di abbigliamento?
È proprio su questo che dovrebbe cominciare a ragionare chiunque abbia dei punti vendita, dalle aziende retail, fino agli istituti bancari, ma anche al piccolo imprenditore di quartiere: quale valore aggiunto offrire ai propri clienti, come riuscire a trasferirlo in maniera corretta, per far vivere loro un’esperienza positiva, memorabile, che li incoraggi a tornare, ma anche a parlarne (il famoso passaparola)?
E (soprattutto) come poter educare il proprio personale di negozio a farsi veicolo di tutto questo?
È qui che si sta giocando una delle sfide più interessanti degli ultimi anni, perché volendo citare Gian Carlo Mocci: “Dal negozio perfetto non vorresti mai uscire”.