Dalla customer experience alla people experience
Si definisce customer experience l’esperienza complessiva che i clienti vivono durante tutta la loro relazione con l’azienda.
È un tema a cui (per fortuna) un numero sempre maggiore di realtà sta prestando attenzione (almeno sulla carta), preoccupandosi dell’esperienza dell’individuo nei vari punti di contatto con l’organizzazione: dal momento in cui comincia a prendere in considerazione quel prodotto/servizio, cioè ancora prima che diventi cliente (il famoso prospect), fino a tutto il suo periodo di relazione con l’azienda.
L’obiettivo? Consentirgli di vivere un’esperienza senza frizioni, al di sopra delle aspettative, per convincerlo a continuare la sua relazione con l’azienda, possibilmente anche a riacquistare e raccomandare quel prodotto/servizio, per condividere poi la sua esperienza positiva con altri (il famoso passaparola).
Tutto è esperienza. Ogni punto di contatto tra cliente ed azienda è un’esperienza, anche se spesso le organizzazioni si concentrano solo su alcuni touchpoint, trascurandone altri…
Il tempo di attesa al telefono per parlare con un operatore del call center è un’esperienza, la velocità di caricamento del sito web aziendale è un’esperienza, la temperatura all’interno di un negozio fa parte dell’esperienza… e così via.
Accanto alla customer experience si comincia a sentir parlare di employee experience, dove con questo termine si intende l’esperienza che i dipendenti vivono all’interno della loro azienda, nei vari momenti del loro percorso professionale.
Anche in questo caso l’obiettivo è fornire un’esperienza senza frizioni, possibilmente addirittura memorabile, per tutto il tempo che i collaboratori rimangono in azienda, al fine di accrescere la loro soddisfazione e quindi consentirgli di svolgere al meglio il loro lavoro, trattenerli più a lungo e trasformarli, per quanto possibile, in un advocate, cioè ambasciatori della loro organizzazione.
Più ci penso, più mi faccio persuasa che anziché parlare di customer experience, employee experience, candidate experience (dove in questo caso si fa riferimento all’esperienza che un candidato vive durante tutto il processo di selezione, ndr), bisognerebbe parlare di people experience.
Ciascuno di noi ricopre ruoli diversi, anche contemporaneamente: possiamo infatti essere dipendenti, ma allo stesso tempo anche clienti dell’azienda per cui lavoriamo.
Prendiamo ad esempio il commesso di un negozio: occorre preoccuparsi della sua esperienza come cliente o come dipendente? Siamo sicuri che l’una sia svincolata dall’altra?
Il fornitore di un’azienda può diventare ad un certo punto cliente dell’azienda stessa, oppure partner in nuovi progetti, connettore con altre realtà, etc.
Ci sono momenti in cui siamo solo stakeholder, abbiamo cioè un interesse più o meno tangibile nei confronti di un’organizzazione, in altri siamo influencer (sì, ciascuno di noi è in grado di influenzare più o meno direttamente decisioni e comportamento di acquisto di altri, non solo Chiara Ferragni), in altre occasioni siamo dipendenti (o collaboratori, o fornitori) e influencer allo stesso tempo e così via.
Insomma, indossiamo tanti cappelli, spesso in contemporanea.
Capite allora come in queste situazioni “fluide” (che si verificano sempre più di frequente) non basta preoccuparsi dell’esperienza di una persona quando ricopre il ruolo di cliente, o di dipendente. È fondamentale preoccuparsi della sua esperienza tout court, perché è questo che può fare la differenza in termini di visibilità e reputazione di un’azienda.
Preoccupate di ottimizzare una sola delle esperienze, le organizzazioni rischiano di dimenticarsi tutte le altre. Oppure lavorano sulle esperienze in modalità “a silos”, cioè assegnando a ciascun reparto l’ottimizzazione dell’esperienza per il proprio pubblico di riferimento (consumatori per quanto riguarda il marketing, dipendenti o talenti per quanto riguarda il reparto HR e così via), senza tenere in considerazione quanto ho scritto sopra, e cioè che si tratta in molti casi delle stesse persone, che stanno facendo “viaggi” diversi, ma il cui interlocutore resta uno e unico, cioè l’azienda.
Ottimizzare l’esperienza complessiva dell’individuo consente alle organizzazioni di accrescere la loro reputazione, e quindi di far crescere anche il business.
Quante realtà oggi ne sono davvero consapevoli? Ma soprattutto, quante stanno lavorando per ottimizzare la people experience a 360°? Secondo me ancora troppo poche.
Al solito, chi saprà occuparsene per primo (e per bene) otterrà un vantaggio competitivo difficile da eguagliare.