Stefania Boleso

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Ma davvero tutte le aziende usano male i social?

Lo spunto me l'ha dato questo post, dal titolo provocatorio: “Non è vero che sui social si fa conversazione”. Nel corso delle settimane mi sono chiesta più volte se ciò che avevo letto corrispondesse a verità, anche sulla base della mia esperienza, di ciò che vedo e di cui qualche volta mi occupo in prima persona.

Beh, se è vero che molte aziende sui social ragionano ancora alla vecchia maniera, cioè da uno a molti, secondo una logica di broadcasting che per anni è stata l’unica possibile, ce ne sono anche altre (sempre di più per fortuna) che invece cercano di essere autentiche e di conversare davvero col proprio pubblico. Magari con risultati discutibili o comunque con ampi margini di miglioramento, ma almeno ci provano e bisogna riconoscere loro il merito.
A maggior ragione se la loro cultura aziendale fino ad ora si è basata sul principio: “Pago, compro, pretendo GRPs”.

I social network nascono come piattaforma di conversazione tra persone e, considerata la loro crescita esponenziale nel corso di questi ultimi anni, era abbastanza prevedibile che le aziende ci volessero essere a ogni costo. La stessa cosa si è verificata quando sono nate la radio e la televisione: le aziende hanno sfruttato questi mass media per dare visibilità ai loro prodotti e servizi. Perché non avrebbe dovuto succedere anche con i social? Pagano per acquisire fan su Facebook? Beh, pagano anche per comprare spazi pubblicitari sui media tradizionali (e molto di più, aggiungerei…).

Secondo me non è grave il fatto che le aziende investano in campagne quali/quantitative su Facebook, è importante piuttosto sapere cosa fanno nel momento in cui ottengono questi fan: cercano di tenerseli stretti cominciando con loro una conversazione destinata a durare nel tempo, oppure li abbandonano? Sarebbe un po’ come giudicare l’investimento sui media tradizionali: chi può dire se 1, 10 o 50 milioni di euro in advertising classico sono ben spesi oppure no? La risposta anche in questo caso è “dipende”.

La conversazione può anche cercare di concludersi con una vendita, nessuno lo vieta. Anzi… Dopotutto l’obiettivo ultimo di un’azienda  è quello di fare profitto e credo che su questo siamo tutti d’accordo. Ancora una volta però dipende da come si esegue il processo che conduce dall’awareness alla vendita: quanto più un’azienda (o meglio ancora un brand) è capace di stabilire un legame di lungo periodo con il suo pubblico, tanto più sarà facile convertire la fiducia in atti di acquisto. Sia online che offline.

Discorso a parte, ma non tanto, merita Twitter: personalmente ritengo che non sia ormai più solo uno strumento di microblogging, per molti versi troppo simile al broadcasting di cui ho scritto sopra; le aziende migliori su Twitter sono quelle che hanno saputo trovare il loro spazio, la loro strada, utilizzando lo strumento in una maniera insolita, ma assolutamente rispondente alle loro esigenze e alle esigenze dell’utente, vale a dire per attività di CRM o di customer service. Un servizio in tempo reale su una piattaforma dove gli utenti sono già presenti: cosa volere di più? Situazione win-win per entrambe le parti, come direbbero alcuni. Per come la vedo io, gli esempi positivi, le cosiddette best practice, saranno sempre più osservate, studiate e imitate (cosa che succede già ampiamente adesso), e il numero di “elefanti nella cristalleria” diminuirà a vista d’occhio, con un impatto importante anche sulla cultura aziendale.
Insomma, la strada è ancora lunga. Ma, stranamente, mi sembra abbastanza in discesa.